La Raccolta del Sale su la rivista “La Piè”
Improvvisa, emotiva, quasi per magico accordo a ogni indagine di lettura la poesia di Brusa sfiora, rinunciando ad ogni attesa, l’eterno trauma, il teorema fatale della calligrafia poetica.
La scrittura è un movimento fisico, tenace, infedele. Un rituale che azzera le assenze mutilandole. Solo apparentemente trascurandole per impossessarsene poi in un gesto di equilibrio feroce, quasi insanabile. Segni risoluti che filtrano il corpo a mani nude ( “..i miei pensieri steccano spesso / e le stanze del mio tempo / le ho spalancate urlando / parole sgradevoli…). Non resta che leggere, entrare nelle parole, cercare di capire. Infine, in un contrasto che ruba il tempo : ascoltare. Quella che si ascolta senza fragilità e compromessi è una voce diversa. Una poesia altra. Lontana dalle parole accurate ma prive di nervo delle scritture falsate da stucchevoli imitazioni. Intendiamoci : ogni artista è per natura e per scelta una spugna che assorbe per debito inevitabile l’arte che lo precede. Le corrispondenze sintattiche e di materia con gli autori del passato è un pegno sano e dovuto che arricchisce ogni identità di una lingua rinnovata, sia essa una composizione musicale, un dipinto, una scrittura. E in questo anche Alessandro Brusa, seguendo le indicazioni che mi ha suggerito, non fa eccezione.
Con coraggio e perizia affronta la struttura di diverse sue stanze ormeggiando interfrasi ( solo apparentemente di più corto respiro ) che riflettono l’organismo lirico di uno dei suoi poeti di riferimento : il poeta di Field Place, Percy Bisshe Shelley. Ma qui finisce l’influenza di cui in ogni caso ho voluto far cenno, perché la poesia di Brusa non si muove certo su temi corrispondenti ma gravita attorno a un mondo ben diverso che lo abita con arroganza o lo avvolge con interrogativi pressanti. Quasi uno spaesamento che raramente lo abbandona in un percorso poetico che sa diventare all’unisono dolce e feroce. Lo fa col coraggio di sporcarsi le mani. Di impastare le parole come terra, per poterle ospitare e respirare fin quasi ad affogare nelle ferite di anni che appartengono a lui solo, beffardo, profondo e sensibile alle controversie di ogni possibile abbandono. E questo lo fa in una scrittura diversamente forte e crucciata, a tratti volutamente sgarbata ( :perché non la so dire questa vita / aggiunta che ti sbatto in faccia ). Così crudo verso sé stesso. Non certo verso chi sa accogliere la sua poesia ferma e affannata al tempo stesso. Chi sa leggerlo mentre lacera il suo mondo in un morso impenetrabile quanto consapevole. Capita così, nei momenti più ombrosi che la parola si placa e inaspettatamente trova pace.
Guido Selvatici.