Alessandro Brusa

D’uso io annuso l’aria che tira
perchè sono l’emozione grezza
che non capirai mai
ed è per me che avrai
salva la vita

 

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Il cobra e la farfalla
  -    -  Il cobra e la farfalla

Il cobra e la farfalla

Photo Mauro Mattarelli | Disegno Tiziana Gurrieri

Questo è il racconto di un viaggio vissuto fuori e dentro di sè.
La strada che il protagonista percorre, sospesa in una geografia dell’anima, attraversa Bologna, Edimburgo, Londra e Stoccolma.
Un viaggio ferito, una corsa disperata lontano dal proprio mondo, alla ricerca di una sessualità che non è e non può essere solo corpo”.

 

Sono pensieri meno distratti quelli di oggi. Pensieri facili di una giornata più lucida. Di questo mio nuovo compleanno che per la prima volta festeggio solo. Potevo partire domani. Ma non conosco modo migliore che passare questa giornata sorvolando un vecchio pianeta che ora come mai sento diverso e facilmente modificabile. Non conosco le terre che passano spedite sotto i miei piedi. Ma so cher non ha senso cercare riferimenti geografici.
Di quelli fissi, che sai sempre dove stanno e che sento legarmi corto il respiro. Perchè è anche scrutando questa roccia dall’alto che prende senso un’esistenza che giorno dopo giorno, negli ultimi nove mesi, ha assunto corpo e dignità propria di chi si appresta a rinascere.
Così ora ti restituisco le parole scritte da quei primi giorni di ottobre sino ad oggi. Scritte su quello stesso quadernetto nero che all’aeroporto mi donasti l’ultima volta in cui incrocia i tuoi sguardi. Da allora ho aggiuto pensieri sempre più attenti a quelle tue parole che sento ancora sotto pelle. Solo attraverso l’esperienza inconsapevole e inaspettata delle cose si raggiunge la conoscenza limpida di se stessi. Parole pronunciate con il cuore di chi conosce il rispetto della propria identità.
Quindi prendili così questi strani scritti. Come una sequenza poco seria di verità mutabili e pressanti sentimenti che hanno preteso l’inchiostro come riscatto. Come unico riscatto per la crescita attraverso momenti infiniti di negazione e conoscenza.
Non so dove tu sia adesso. Ma so che lasci sempre una strada aperta per farti raggiungere da una lettera. E a questa strada affido il presente. E chissà, forse anche il futuro.
Tra qualche ora arriverò a destinazione. E sarà dolce e perfino un po’ impertinente cominciare a disporre i pezzi del resto della mia vita con la passioe di chi è sicuro del proprio fiato.
Tuo per sempre A.
(Uno a te troppo simile… indomito, veloce e orgoglioso)
.

 

Birmingham, 2 ottobre

Caro J.,
sono già passate due settimane dal mio arrivo in questo paese.
E ancora non capisco se maledire mio padre per avermi spedito qui abbia qualche senso. Ora che non chiedo altro che essere lasciato ai miei ultimi goffi tentativi di essere speciale. Almeno per me stesso. Nove mesi assurdi. Nove inutili mesi di studio all’estero.
Martedì scorso ho avuto la prima lezione e il primo incontro con i miei compagni di corso. Mediamente simpatici. Con una percentuale di braghe decisamente imbarazzante: sarà contenta Annamaria. Di italiani ce ne sono altri due, oltre a me: uno è il classico fighetto fasullo… gli avrestri già spaccato la faccia. L’altro è più affrontabile, tranne quando comincia a parlare delle sue prodezze sullo snowboard giù per il canalone Miramonti. Comunque dovrei liberarmene abbastanza in fretta. Dopo i primi cinquanta giorni ognuno sarà destinato ad altra sede. La mia destinazipone è ancora incerta: si parla di Leeds o di Edimburgo… la tua Scozia. Staremo a vedere.
L’edificio dove si tengono le lezioni è ad appena due isolati dal college che mi ospita, per cui sono per ora riuscito ad evitare il grigiore che persevera sui muri di questa Birmingham. La mia stanza è in un fabbricato dall’aspetto intimamente sano. La facciata è completamente coperta di edera, tanto che se lasci la finestra aperta per un giorno intero ti ritrovi i germogli già dentro lo stipite. C’è anche un gatto siamese che si aggira per il mio piano. Penso dorma nella sala tv, dove c’è sempre qualcuno e dove le ragazze delle pulizie non si addentrano mai. Sembra essersi già affezionato, forse perchè le mie tagliatelle sono meglio della sbobba che lo studente inglese medio si cucina.
Per ora sono in camera da solo, il che mi permette di isolarmi appena le continue recite del genere “giovani ventennni felici” sorpassano il limite minimo di ipocrisia. Limite che forse non è basso come il tuo, ma che sembra quasi oscillarmi dentro, stringendo di volta in volta il giro attorno alle mie feroci crisi d’ansia. Le pareti della stanza sono talmente spoglie che sento quasi le tue urla di gioia di fronte a tanto materiale su cui lavorare. Ma sai benissimo che andrà tutto sprecato nelle mie mani incapaci. L’unico sollievo in questo oceano di tristezza è una specie di bacheca ove ho già attaccato quella nostra foto al Marsalino.
Annamaria mi telefona tutti i giorni. E la cosa si fa quasi imbarazzante, dal momento che dopo due minuti non si sa più cosa dire. Ma questo è abbastanza normale, penso.
Tuo A.

 

Edimburgo, 13 novembre

Sono arrivato qui ad Edimburgo qualche ora fa, nel primo pomeriggio, che in questo periodo dell’anno a questa latitudine vuole dire tramonto. Ed è con la discesa del sole che ho salutato questa città.
Ci arriva da est l’aereo da Londra. Segue la costa orientale fin’oltre Newcastle per rientrare verso ovest su di una profonda insenatura. Quasi il segno di un bisturi slabbrato inciso nel ventre stesso della Scozia. Ma non è l’orizzonte quello che ruba l’attenzione. È il profilo scuro di due ponti, di due tracce sghembe che disegnano la loro ombra sulla massa d’acqua accecata dal sole che tramonta ad ovest.

In fondo se ci pensi è quasi immorale mettersi a guardare il sole al tramonto. Consapevolmente. Proprio un istante prima di farsi abbandonare. Dedicare istanti preziosi in adorazione di qualcosa che di lì a poco sarà lontano. Ad illuminare qualcun altro. A riscaldare qualcos’altro. Ecco perché in questi giorni di rientri complessi cerco di non guardare troppo questa città. Comincio ora a conoscerla. Comincio ora a riconoscere i suoi muri. Comincio ora a perdermi nei suoi vicoli. Ma non posso non mantenere le distanze da un destino sicuramente non mio. Sono continuamente tentato di lasciarmi andare. Di immergermi così duramente e irreversibilmente nei suoi meandri e nella sua vita che la sensazione che provo a vederla, a camminarla, a sentirla, è quasi quella di chi si ostina ad affacciarsi dalla cima di una torre pur soffrendo di vertigini. Sai quando non riesci a capire se il timore di affacciarti oltre non dipenda tanto dalla paura, ma piuttosto dalla consapevolezza di non essere in grado di resistere al desiderio irrefrenabile di buttarti di sotto. Di sfidare la distanza tanto da percorrerla. Per la prima volta. Per l’ultima volta. Non so ancora di preciso cosa mi stia succedendo, trascinato ancora una volta da qualcosa più grande di me.
Quello che perdona ancora la mia indecisione, i miei passi lenti, è la sua personalità. Non è una città diffidente. Non è una città veloce. Il che mi dà la possibilità di inserire lentamente i miei pensieri tra i suoi, senza temere di venire rifiutato.

È un’incredibile giornata di sole. Le nuvole che stamattina ricoprivano il cielo sono state spazzate via dal vento come preoccupazioni da una buona dose di Valium.
È terribilmente freddo fuori. Ho passato la mattinata in centro, tra le commissioni per Mr. Forbes e una serie di giri in giro per ricucire il più velocemente possibile lo strappo con la città.
Mi è già entrata nella memoria Edimburgo. Ma ancora sento di non averla nel sangue. Credevo, nei mesi passati, di averla stillata piano attraverso la mente sino alle più piccole arteriole. Invece oggi mi sono reso conto di quanto ancora mi sfugga. Ed allora ho ricominciato a camminare a vanvera. Per sentire le sue strade sotto i piedi. Per vedermi i suoi muri scorrere accanto. Su per Cockburn street. Verso Greyfriars.

Quando stacco alle cinque il sole se ne è già andato da un pezzo e tra me e le luci del castello rimane ben poco, se non gli autobus dei pendolari e una pioggerellina fine fottutamente fastidiosa. Non è neanche pioggia… è solo una sottospecie di umidità ipervitaminica che aderisce come una guaina di cellophane. Si adagia sulla testa senza che tu te ne accorga finché non ti rendi conto di avere i capelli madidi adesi alla fronte ed alle tempie. Ed allora è troppo tardi per aprire un ombrello o fare qualsiasi altra cosa. È pure inutile cercare di camminare rasente i muri. Provo allora ad immaginare come sarebbe Edimburgo con i portici. Offerta ultima di protezione verso chiunque si senta orfano sulla strada.

Non so se tu ci sia mai stato su questa spiaggia. Un misto tra spiaggia di mare e spiaggia di fiume. Perché così è questo singolare braccio d’acqua. Né mare né fiume. Strano estuario. Informe ed impreciso come a volte sento i giorni davanti a me. Ma se il timore sottile è di non trovare una via d’uscita dopo tutto ciò, allora questo irrequieto braccio d’acqua diventa palestra per pensieri irrecuperabili. Perché oltre a queste acque inquinate. Oltre a questo sferragliare di treni. Oltre a queste onde oscure sale Edimburgo. Prima confusa, poi sempre più precisa nelle sue luci bianche. Come una scintilla nella pioggia. Come un vestito di paillette addosso ad una vecchia signora, che lo porta con nobiltà. Perché di secoli ne sono passati. Di anni e di mode se ne sono visti. Ed altri ce ne saranno. Ma Edimburgo sarà sempre lì. E questo pensiero dà pace. Continuità. Senso di appartenenza a questo mondo. Ad un ragazzo lontano mille miglia che ora forse starà dormendo, o più probabilmente dipingendo. E ad un altro ragazzo più vicino, con una Tennant nella mano destra mentre con la sinistra mi scompiglia imbarazzato i capelli.

Le nuvole. Quelle provenienti dal Messico e dai Caraibi. Quelle nuvole si stancano ad attraversare l’Atlantico. Partono da così lontano che, stirandosi indelebili per miglia e miglia, pensano quasi di non doversi fermare mai. Poi, quando passano sull’Irlanda, cominciano a percepire la necessità di dare terra ai loro pensieri. Ed allora vedono la Scozia, in lontananza. E cominciano a farsi terrene.
Sono arrivate sin qui, guidate da quella stessa corrente che nelle calette riparate della costa occidentale fa crescere orchidee e strane palme, quando più in là crescono a fatica olmi e querce.
Con il tempo, il mare prima e la terra poi si fanno più pressanti sotto di loro. E così la stanchezza del lungo viaggio. Ma poco più in là sanno cosa le aspetta e resistono. Mantengono in quota quelle loro forme stanche da vecchie zitelle fin quando non vedono delinearsi dietro ad Arthur’s Seat gli spigoli della città vecchia. Quindi si spingono fino sul Royal Mile per coricarsi e adagiarsi finalmente sul castello: il cuscino più dolce e brillante che avessero mai potuto sognare. E in quell’istante, in quell’istante in cui illuminate dalle luci bianche di Prince street finalmente, stanche, anche loro chiudono gli occhi. Beh, in quest’istante non vorrei essere in nessun altro posto al mondo.
Forse.

 

Bologna, 17 dicembre

… Era incredibile la città stasera. C’era la nebbia fitta. Molto bassa. Molto densa. Si vedeva appena la cima della Garisenda e solo metà degli Asinelli. Ma quello che rendeva tutto così amaramente reale era l’incredibile somiglianza ai tuoi quadri. Un po’ per gli spazi: corti, poco definiti. Un po’ per l’uniformità dell’umidità: arancione, per i faretti notturni. Abbracciava la gente tutt’intorno ancora più familiarmente di quanto da secoli non faccia il rosso dei mattoni con i muri. Si esibiva su piani concorrenti di ombre e luci, secondi di nebbia battuti dall’alternarsi di colonne e archi su infiniti portici senza soluzione.
Così protetto ho preso ad immergermi sempre più fittamente nelle strade, chiudendo stretto il giro attorno a casa tua. Confidando che a quell’ora fosse il posto più improbabile ove trovarti. Sono rimasto seduto su un motorino sotto al portico di fronte per almeno due ore, finché il freddo e l’umidità di un dicembre bolognese particolarmente mite me lo hanno permesso.

Sono passato al mercatino di Santa Lucia prima di rientrare a casa. Avevo bisogno di pace. Di spazio per pensare. E lì scorre veramente libero il tempo. È un posto irreale. Un luogo della mente. Ho comprato una palla di vetro per l’albero. Come tutti gli anni da quando mia zia mi ci portò per la prima volta che avevo 5 anni. Mi veniva a prendere da scuola alle cinque. Anche Lara. La mia fidanzata di allora. Dovevamo sposarci. Passavamo per via Santo Stefano e via Remorsella. Poi via San Petronio vecchio e via Guerrazzi. Eravamo dei professionisti. Imboccavamo il mercatino dall’inizio. Sempre. In verità non c’è mai stato un inizio e una fine. Ma dal lato del quadriportico c’è sempre il ragazzo dello zucchero filato. E Lara lo adorava, quindi si partiva da lì. Mi piace pensare che nulla sia cambiato negli ultimi vent’anni. Che sia il posto meno mutevole dell’universo. Le stesse bancarelle. Le stesse persone. La solita vecchietta con il marito barbuto. La stessa signora che ogni anno mi presenta le palline nuove. «Queste le ha già. Ma guardi questa gattina in vetro soffiato. È un amore». Quindicimila lire per portarsi a casa un po’ di Natale. Uno nuovo. Non quello vecchio.
A volte la neve si faceva di vento. E allora ci si chiudeva nella chiesa. A volte pregavo anche. Ora ho smesso.

Ed allora penso a Bologna.
E la vedo concentrarsi in un mucchio di mattoni tra un autobus a due piani e una colonna con relativo acrobata, testimone di fottute e sanguinose vittorie dell’impero.
E sento che mi manca essere guardato. Sì, guardato, osservato, scortato, accompagnato. Perché a Bologna funziona così. Ti sembra di essere solo, ma poi, quando i respiri attorno a te diventano talmente tanti da scomparire in un concerto di pensieri, allora capisci che a Bologna funziona proprio così. Dei palazzi, delle chiese, delle torri se fai attenzione puoi incontrarne lo sguardo. Che se sono lì da secoli è anche grazie a te.
E questo.
Loro.
Lo sanno.

Giocavano ad attraversare. Ecco cosa Mike e suo fratello hanno fatto per tutta la strada tra il centro sportivo dietro Holyrood e casa nostra. Variabilmente rincorrendosi hanno giocato ad attraversare. Cosa? Qualsiasi cosa. Dallo spartitraffico più insulso all’incrocio più incazzato. Dal giardinetto verde con quella loro fottutissima erbetta perfetta al muretto più bastardo. Non importa come. L’importante era solo fare la strada più corta. Dall’esterno può sembrare una cosa puerile e non così strana, ma per un bolognese assume connotazioni stranamente equivoche, paradossalmente sfottenti. Perché fidati, chi non conosce Bologna o non ci è mai stato non sa veramente cosa vuole dire attraversare un cortile. Certo, magari lo si è fatto milioni di volte, ma nessuno dei sopracitati scommetto sappia veramente cosa vuole dire attraversare un cortile. E allora bisogna provarci. Prima di tutto bisogna rivelare il piano nella propria mente, ma non troppo rumorosamente, che gli archi c’hanno orecchie. Allora guardare l’altro lato del portico e blandirlo velatamente. Avvicinarsi alle colonne facendo finta di niente e prima che quel solito stronzetto che c’è sempre nascosto da qualche parte tra un neurone e l’altro possa dire qualcosa, zac. Piede fermo sul selciato e via, verso l’altro lato del cortile senza seguire il millenario ordine delle cose: su un lato e poi sull’altro, arco dopo arco. Perché è questo che noi facciamo. Noi a Bologna. Gli unici italiani a non scegliere la scorciatoia. Ma non lo facciamo apposta. Non è che siamo più bravi degli altri, anzi. Quando poi arriviamo a destinazione cominciamo a tirare giù una serie di madonne che dalla Guardia si fanno il segno della croce sette o otto volte tanto per stare dal lato dei bottoni. Perché allora ci accorgiamo di aver fatto la strada più lunga. Ma è sempre dopo, che ce ne accorgiamo. E non siamo più stordi bada bene. È solo che ci piace camminare protetti il più possibile. Solo, ci scoccia ammetterlo.

 

Londra, 8 aprile

… A Londra c’è una cosa che non ho mai capito, non che ci sia mai stato tanto a lungo da chiarire la questione…
Ma comunque.
Dicevo. Ma come cazzo è girata ’sta città? Che ci sono un bel po’ di sue parti che conosco abbastanza bene, ma se solo cerco di riunire le loro immagini nella mia mente, beh, allora non c’è proprio pezza che riesca a tirar fuori un quadro anche vagamente unitario. Come se certe strade avessero un inizio e una fine, ma mancassero completamente di qualche centinaio di metri tra queste due estremità, sì che a volte confondo pure l’inizio di una con la fine dell’altra: scendo giù verso Charing Cross road e mi ritrovo a Trafalgar quando magari ero convinto di sbucare a Piccadilly. Così mi sono calato in metropolitana cercando di scegliere una qualsiasi meta, girando lo sguardo tra inverosimili squadre di calcio e più o meno stolidi ricordi da negozio di dischi. Tra Tottenham Court road e Hammersmith. Da Regent’s park a Waterloo.
L’una e qualcosa.
Sono di fronte a Parliament House, sulla riva destra del Tamigi.
Credo.
Londra.
Una delle città più affollate del mondo.
Li sento tutti. Uno dopo l’altro. Uno sopra l’altro. Brulicare con quei loro insulsi piedini tra gli spartitraffico e i marciapiedi di questa specie di troia. Non c’è mai stato orecchio più complice di questo nella sensibile registrazione di tali e tanti battiti asincroni. Anche solo per quantità. Ma la presenza inaudita di tutta questa gente è spessa come certi pensieri di qualche giorno fa. E come quegli stessi scomodi compagni mi segue ora tra le strade, dove dietro ogni angolo, su ogni ponte, su ogni fottuto vagone della metropolitana posso sentire distintamente ognuno di questi milioni di abitanti. Quasi che lo sguardo distratto di ognuno di loro possa essere il concentrato univoco di tutti gli sguardi che perlustrano Londra. Quando non ci sono pause. Quando non ci sono tempi morti. Quando devi correre: sempre e comunque.
“ Chi si ferma è perduto!”.
Questo lo diceva mio nonno. Ma lui era un ragazzo del ’99: aveva fatto la grande guerra. Ed anche quella dopo, che poi così piccola non mi è mai parsa. E c’aveva pure messo tre anni per tornare a piedi dalla Russia. Comunque.

 

Edimburgo, 28 giugno

Le nuvole. Quelle provenienti dal Messico e dai Caraibi. Quelle nuvole si stancano ad attraversare l’Atlantico. Partono da così lontano che, stirandosi indelebili per miglia e miglia, pensano quasi di non doversi fermare mai. Poi, quando passano sull’Irlanda, cominciano a percepire la necessità di dare terra ai loro pensieri. Ed allora vedono la Scozia, in lontananza. E cominciano a farsi terrene.
Sono arrivate sin qui, guidate da quella stessa corrente che nelle calette riparate dalla costa occidentale fa crescere orchidee e strane palme, quando più in là crescono a fatica olmi e querce.
Con il tempo, il mare prima e la terra poi si fanno più pressanti sotto di loro. E così la stanchezza del lungo viaggio. Ma poco più in là sanno cosa le aspetta e resistono. Mantengono in quota quelle loro forme stanche da vecchie zitelle fin quando non vedono delinearsi dietro ad Arthur’s Seat gli spigoli della città vecchia. Quindi si spingono fino sul Royal Mile per coricarsi e adagiarsi finalmente sul castello: il cuscino più dolce e brillante che avessero mai potuto sognare. E in quell’istante, in quell’istante in cui illuminate dalle luci bianche di Prince street finalmente, stanche, anche loro chiudono gli occhi. Beh, in quest’istante non vorrei essere in nessun altro posto al mondo.
Forse.
A.

 

A.

Mi sono guardato a lungo allo specchio stamattina. Appena tornato dalla festa. Dopo aver fatto l’amore con Annamaria.
Mi sono guardato a lungo allo specchio stamattina. Nudo. Ho osservato attentamente le mie gambe e la stupida linea di pelo che dal pube si solleva sino all’ombelico, e più su ad aprirsi sul torace. Quel poco di barba che dispettosa si concentra tutte le mattine sul mento. L’uccello. Distratto. I piedi. Troppo grandi, lo so. I bicipiti. I pettorali. Gli addominali. Residui di un passato non troppo remoto di nuotatore. Ora chi ne ha più il tempo.
Mi sono guardato a lungo allo specchio stamattina. E tutto quello che sono riuscito a chiedermi è stato a che cazzo servisse tutto quello che vedevo. A chi cazzo interessasse un tale groviglio di inutilità e banalità. A chi servissero le ore passate in una vasca a nuotare. O le notti insonni a studiare. I pomeriggi distratti, aspettando la sera. Aspettando di diventare grandi, osservando i peli crescere sul corpo e le sensazioni farsi più tenui. I minuti contratti nell’attesa della rivoluzione… per strada, in una discoteca. Tutte le volte che mi sono ubriacato per poi vomitare l’inferno. Tutte le volte che ho pensato a me stesso. A quanto sarebbe stato stupido fare ciò che ora mi sembra indispensabile. A come sarebbe pensare forte di essere uno scrittore… credendoci. Alle volte in cui ho detto quello che pensavo per poi rimangiarmi tutto. Alle bugie, ripetute sempre più velocemente per stordirne l’inesistenza. Ai giorni passati con Claudio a parlare di sesso cercando di capire cosa sia. Al sesso bruciato rapidamente, per non amare troppo. Alle scopate perse. O a quelle rimpiante. Alle poesie scritte nei cessi del Righi per non portarmi dietro pensieri troppo pericolosi. A quel ragazzo in tv che sta morendo di Aids. A mio zio che ne è già morto. A mia cugina che non ha più un padre. A me stesso, che è come se non ce l’avessi mai avuto.

 

J.

Eri irrimediabilmente circondato dal più assurdo numero di linee curve che avessi mai visto. Era chiaro nei tuoi occhi l’imbarazzo per ogni secondo passato a livellare il tuo respiro sugli infiniti stati di assenza che mancavano all’inizio del secondo atto.
E così ti guardai.
Feci il possibile per non fissarti, ma è duro opporsi a certe continue contrazioni intercostali quando divertebrano dentro. Cominciai così, lentamente, a posare i miei sguardi sui singoli segmenti del tuo profilo, cercando, non osservato, di osservarti, mascherato solo da una colonna.
«È già tanto se non mi sono messo i jeans!».
Così esordisti con me, con quel tuo buffissimo accento francese nel momento stesso in cui infiltravi nel mio mondo la sequenza di istanti che ci ha portato sin qui. Frase più scema non la potevi trovare, ma riuscisti a smascherarmi; e allora, contro il risultato nulla conta no?
È difficile anche ora dimenticare le tue Airwalk nere sbucare dai pantaloni marroni appena coperti da una delle tue inverosimili giacche di velluto a costine. Indubbiamente originale per una prima al Comunale, ma «…la Madama Butterfly di Bob Wilson non si può saltare vero? Se poi il biglietto per la platea te lo regalano!». Ti mancava il loggione. Era la prima volta che ti vedevo, ma la sensazione che percepivo era pulita. Potevo avvertire nei tuoi gesti l’abitudine al loggione. Alle notti passate svegli per essere pronti in fila alle sei del mattino. Alle baruffe con i nostalgici della Callas. Ai trucchi ridicoli per salire di posto nell’elenco per l’assegnazione dei biglietti. Ma soprattutto avvertivo l’imbarazzo di trovarsi per la prima volta in un posto ben conosciuto, ma forse in un universo parallelo. Non ti ho più rivisto così. Sempre a tuo agio in qualsiasi situazione, mi manca, ogni tanto, quel buffo ragazzo ancora imbarazzato al solo pensiero del foyer Rossini.
« Ti sei mai concentrato tanto intensamente su di un colore da far sì che tutti i sensi ne siano invasi, al punto da sentirne le onde stesse vibrarti sotto la pelle e poi sempre più in profondità, sino all’essenza più intima di te stesso? Prova con il rosso della Butterfly, e se non ce la fai, dopo lo spettacolo, potrei presentarti il blu margarita più incredibile che abbia solcato i banconi dell’emisfero occidentale».
Improvvisa. Impaziente. Inaspettata e incredibile. Certamente irresponsabile.
Ancora non riesco a trovare parole o frasi più chiare per descrivere l’essenza stessa di quella proposta. Da poco più di dieci minuti avevo incrociato i tuoi occhi per la prima volta. E da ancora meno mi avevi rivolto la parola. Ma c’era una certezza permanente nelle tue parole che non poteva non incantare uno che, da anni, le subisce.
E per la prima volta dimenticai l’università e l’esame imminente.
E che margarita! La miscela più improbabile di alcolici che avessi mai visto. Perché, indipendentemente dal sapore, il solo colore era stupefacente.
Penso di non aver mai camminato così tanto per Bologna come quella sera. Senza una meta o la benché minima direzione. Protetti dalle strade del centro. Ipnotizzati dal costante succedersi di arenaria e selenite. Sui muri, sulle colonne, alla base delle torri. Seguendo le tue parole, distese sotto i portici e continuamente riprese e rilasciate, per tessere la fitta rete di immagini che velocemente mi portò sotto casa senza neppure che me ne rendessi conto. Non ricordo cosa mi dicesti o cosa mi raccontasti. Vedevo solo nella mia mente costruirsi un’immagine sempre più chiara e nitida di una persona che solo con le ore andava identificandosi con te. Ed allora sembrava incredibile non averti conosciuto prima. Sembrò incredibile non aver vissuto la tua vita. Non aver potuto scegliere di essere te.
A.

 

Mike

Di bevuti di cervello pensavo di averne incontrati a sufficienza nella mia vita. Ma ho anche visto gabbiani sul Forth librarsi meno precisi di quanto non facesse Mike stamattina.
Mike. Un’onda leggera e sinuosa aderente a pressanti sensazioni che non riesco e non voglio descrivere.
Stavo leggendo uno degli annunci in bacheca. Una ragazza cercava studenti ambosessi con cui dividere l’appartamento, quando questo strano tipo si è avvicinato stridendo come un vero gabbiano. Percorreva il corridoio che porta alla biblioteca a braccia aperte pretendendo di chiamarsi Jonathan. Lo faceva per fare incazzare quello stronzo di bibliotecario, m’ha detto. Pare l’avesse cacciato fuori dalla saletta il giorno prima per una strana storia di fotocopie che risultava ancora più complicata nel suo stretto accento scozzese.
Mi ha strappato l’annuncio di mano, gli ha dato una veloce scorsa e ha detto: «Sono il tuo uomo, ma facciamo duecento sterline e io non porto via la spazzatura».
Gli ho spiegato che io non c’entravo un cazzo con l’annuncio o almeno che non ero io che l’avevo appeso, ma non è che abbia cambiato molto le cose. Ha solo riletto il foglio più attentamente. «In effetti non hai proprio l’aria di chiamarti Denise. Beh, qual è il problema? Gilmore place. So dov’è. Andiamo!?».
Oltre Lothian street.
Earl Grey street.
Il bivio per i Meadows.
La prima a destra.
Sono costruzioni georgiane. Come nella New Town. Bisogna passare uno strano bed and breakfast chiamato Armadillo Guest House, rappresentato all’esterno da un raccapricciante armadillo semifossile esposto sulla finestra di fianco alla porta. Sul foglietto c’era scritto 14 Gilmore place. La porta successiva. A rassicurante distanza da quel disgustoso animaletto.
Mike mi ha guardato, ha blaterato qualcosa di incomprensibile da cui erano state precedentemente asportate le T (quelle di solito le lasciano al parco) e siamo entrati. Ed allora non ho capito più nulla. Non capivo come avessi fatto ad arrivare sin lì. Cosa stessi facendo in una città, mai così straniera, insieme ad un ragazzo conosciuto appena mezz’ora prima.
Ho spiato attentamente lo spazio che avevo attorno. La carta da parati. La larga scala che porta al piano superiore. E l’assurda moquette uniformemente distribuita su tutti i pavimenti del regno.
Ho studiato ogni centimetro di quella casa.
Apparentemente uguale a qualsiasi altra casa. Ho valutato ogni piccolo passo ovattato. L’impatto di ognuno degli astanti sui miei pensieri e sulle mie preoccupazioni. Ma senza una reazione immediata. Poco più che un esperimento sociologico su me stesso.
E mi sono sentito a mio agio.
In un istante.
Ho assorbito lo spazio attorno a me. La totale mancanza di qualunque cosa potesse essere familiare. La forza dell’esplorazione e la conseguente energia della conquista. Un ritorno sincero di stabilità e sicurezza.
Ci ha fatti entrare la ragazza dell’annuncio, credo. Anche se a giudicare dallo scarso interesse poteva essere la prima ragazza passata per caso di lì.
Ci siamo seduti su due divanetti, attorno ad un tavolino dove prima c’erano altri due pretendenti. «Don’t worry… useless cunts».
Ho ascoltato Mike parlare. Contrattare sul prezzo. Sui turni delle pulizie. Forse anche mentire. Inveire contro quegli insulsi ragazzotti usciti prima che noi entrassimo. Parlare precisamente del ragazzo italiano al suo fianco. Come lo conoscesse da anni. Spergiurare sull’onestà di chiunque in quel momento potesse tornare utile per ottenere l’appartamento. Ce l’hanno dato.
«We go e!». Che rifornito delle legittime T dovrebbe suonare tipo “Ce l’abbiamo!”. Mi ha fissato negli occhi in un modo che comincio quasi a sentire familiare e mi ha riportato al college.
«We’re moven tomorrow. I’ll be here a haf ei with me aunt’s fokin Micra… fokin bubble over wheels! Be rede! Ok?».
Che potevo dire… «Yep!».

Rincasa tutte le sere verso le undici e mezzo Mike. Di solito mi chiudo nella mia stanza verso le nove, quando anche Denise rientra, così che finisco per non vedere nessuno dei due.
Denise. Non è che mi stia antipatica, ma ci incrociamo decisamente di rado. E né io né lei sembriamo particolarmente interessati a costruire alcun tipo di rapporto che vada oltre la civile coesistenza. Quindi ci incrociamo semplicemente per obblighi di convivenza. Mike invece sembra non sopportarla proprio. Anche se sono passate appena due settimane da quando ci siamo trasferiti ha già trovato un paio di cose su cui ridire. Sembrano entrambi già pentiti della scelta abitativa. Il risultato è che anche con Mike non ho più avuto occasione di parlare. Parlare veramente voglio dire. È quasi tutte le sere a calcetto o dalla sua ex ragazza a farsi lavare qualche cosa o nel suo vecchio appartamento a recuperare chissà quale indispensabile oggetto inspiegabilmente dimenticato.
Denise è tornata a Liverpool per il weekend e così ieri sera Mike ha portato con sé due pizze, nel caso non avessi ancora mangiato. Ha detto che gli faceva un poco strano portare una pizza ad un italiano. Ed in effetti quelle fette d’ananas adagiate sulla mozzarella erano leggermente inquietanti. Ma l’ho mangiata lo stesso: un po’ per cortesia e un po’ perché non mi ero preparato nulla per cena. Per sdebitarmi gli ho fatto un caffè con la moca portatami da casa. Gli ho pure fatto la schiuma con lo zucchero, da vera ricetta napoletana. Non mi è venuta un gran che, ma a giudicare dallo sguardo un poco perplesso alla vista di quella piccola tazzina con appena due dita di liquido nero, dubito che abbia percepito la differenza o rimpianto un qualsiasi originale.
Mike.
Ha una voce flebile. Sembra quasi rompersi ogni tanto quando i bassi non gli consentono un controllo adeguato. È quasi metallica. Estremamente amichevole. Così lineare che spiazza di continuo chi gli si trova di fronte.
Quando parla.
Contrae leggermente l’angolo destro della bocca nel discorso. Lo sposta verso la guancia ed un po’ più su, quasi a ricongiungerlo con lo zigomo. Non è proprio un tic. Non credo. Sembra quasi una smorfia. Fatta per sottolineare all’interno della frase la parte più importante. La parte che più gli sta a cuore.
Quando ascolta.
Allora sposta continuamente la testa da una parte all’altra, riequilibrando nel tempo il peso sulle spalle. Sembra un gatto. In costante disequilibrio appoggia prima una zampa e poi l’altra. E poi a ripetizione, mentre ti fissa in attesa del cibo. O magari solo di una carezza.
Ancora.
Quando parla sembra quasi suo scopo ultimo quello di ipnotizzarti. Distrarti quando invece sei tu a parlare. Dopo il caffè ha aperto due birre che aveva preso da Pizza Hut qui sotto casa Tennent’s Lager – “Brewed in Scotland”. Mi ha raccontato un po’. Di quello che gli passava per la testa. Della sua vita. Della sua famiglia. Del piccolo paesino da cui viene dall’altra parte del Forth. Ultimo anno di Storia del cinema qui all’Università di Edimburgo. L’indiano. Un passato quasi recente marchiato da una brillante carriera nel mondo dell’intrattenimento alberghiero… cameriere a Copenhagen.
Aveva deciso di girare il mondo quell’anno. O almeno di vedere i tre quarti di quello che lo interessava. Il fatto è che dopo aver attraversato Francia, Belgio, Olanda e Germania pare sia inspiegabilmente rimasto al verde. Così si è fermato in Danimarca per raccattare altri soldi. Soprattutto per non tornare a casa a farsi prendere per il culo.
Non parla più con sua madre o suo padre da quasi due anni. È in contatto solo con suo fratello minore Andrew di 17 anni. Lo adora suo fratello, si sente da come ne parla. Da come si agita quando lo descrive. Da come gli luccicano gli occhi quando racconta dei weekend rubati passati insieme nelle Highlands. O di quando lo va ad aspettare fuori da scuola per essere sicuro di non incrociare i genitori.
Ha parlato per tutta la sera. Ha semplicemente incrociato le gambe, si è seduto sul pavimento e ha cominciato a studiarmi lentamente. Forse pensava non me ne accorgessi. Forse pensava di distrarmi con i suoi racconti così che non avvertissi il suo sguardo adagiarsi lentamente su ogni mia smorfia. Su ogni reazione alle sue parole. L’ho visto abbandonarsi alla sua voce per poi riprendersi e fissarmi di striscio, disorientarmi con gli occhi e poi guidarmi su di lui. E l’ho lasciato fare. Facevi così anche tu del resto.
Dopo poco le cinque bottiglie di birra hanno cominciato ad imporre il loro ritmo di va e vieni dal bagno per pisciare. E ricordo ben poco quello che è successo dopo. Ricordo di essermi appoggiato con il braccio sinistro al muro sopra il water. Ricordo Mike camminare scalzo (cammina sempre scalzo) e storto verso il cesso. Ma penso non sia passato molto prima di essermi accasciato completamente sbronzo.
E lo spettacolo stamattina non era dei migliori. E Denise sarà qui tra poche ore.
Mike è ancora collassato sul divano. Un prigione di Michelangelo. La felpa della Russell Athletic srotolata dai fianchi sin sotto il braccio destro a scoprire mezzo torace. I piedi nudi infilati sotto un cuscino per tenerli un po’ più caldi. Gli ultimi due bottoni dei jeans slacciati per perdere meno tempo al cesso: nelle sue condizioni ogni secondo sprecato è una sfida aperta all’incontinenza.
Io sono sveglio da più di mezz’ora, ma non ho avuto il coraggio di svegliarlo. Mi sono a fatica tirato a sedere. Mi sono a fatica fatto un caffè. Ed ora sto qui a fissare quello strano corpo che mi sta di fronte. A seguirne le curve con sospetto. Ad offrire un corpo ai miei pensieri neri.

Musik
One Day, Björk, 1993
La linea d’ombra, Lorenzo, 1997
Let It All Come Down, Simple Minds, 1989
The Love Thieves, Depeche Mode, 1997
Istantanee, Subsonica, 1997
Men & Women, INXS, 1992
Song 2, Blur, 1997
Ain’t Talkin’ ’bout Dub, Apollo440, 1997
Bang On!, Propellerheads, 1998
Disperato Erotico Stomp, Lucio Dalla, 1977
Govinda, Kula Shaker, 1996
La favola di Adamo ed Eva, Max Gazzè, 1998
When Spirits Rise, Simple Minds, 1989
Moaner, Underworld, 1999
Due Destini, Tiromancino, 2000
Let Your Body Decide, The Ark, 2000
Sono = Sono, Bluvertigo, 1999

 

Campionamenti
Percy Bysshe Shelley, Wedded Souls, Amor Aeternus, Ode To The West Wind
Thomas Stearns Eliot, The Waste Land
Douglas Coupland, Microservi
Maurizio Brusa, Le ragioni del corpo
Samuel Beckett, Aspettando Godot
Lella Costa, Magoni e forse miracoli
Alessandro Baricco, Novecento, Grand Opéra (Barnum)
Henry Laborit, Elogio della fuga
Mario Luzi, Il mai perfetto
Woody Allen, Annie Hall
Mark Leyner, Mio cugino il Mio Gastroenterologo
Gus Van Sant, My Own Private Idaho

Debiti e Crediti
Stefano, il solo e unico cucciolo.
Antonella e Mario che un giorno mi ritroveranno.
Carla per esserci sempre e comunque.
Maurizio che ha fornito l’alfabeto diligente.
Andrew, me li’l bro. Jiji, la mia prima lettrice. Claudio, l’altro fratello.
Tiziana che ha disegnato l’ispirazione primordiale. Sacha + Alice, Susanna.
Finbar e le sue domande scomode. Annalisa. Chiara e la sua vita infinita.
Giuss., la vera e unica miss. La zia Costi. Tania. Sergej.
Daniele, Ghedo, Paolo, Puppy, Raffaele.
Bologna, Edimburgo e Stoccolma senza le quali avrei mosso passi ancora più incerti.
E Pierpaolo, per il quale tutto questo ha avuto inizio.

 

 

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