Alessandro Brusa

D’uso io annuso l’aria che tira
perchè sono l’emozione grezza
che non capirai mai
ed è per me che avrai
salva la vita

 

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In tagli ripidi (nel corpo che abitiamo in punta)
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In tagli ripidi

(nel corpo che abitiamo in punta)

«:perché ho memoria […] perché scandaglio la storia». La rima non è casuale perché la memoria è lo strumento necessario per comprendere, come in precedenza il sale aiutava a conservare nonché a curare il corpo, e col corpo l’anima. E il corpo è posto sotto il caproniano “sale del mondo”, ossia il sole. Tutto già torna, se si vuole; tutto è già compreso in pochi versi, come capita solo coi veri poeti. Ma la poesia è costante ricerca e nella ricerca è costante interrogazione.

Prosegue, così, il percorso di ricerca di Alessandro Brusa attraverso la poesia, per attrazione («cercando lo scontro») e repulsione («cercando la fuga») al contempo: un moto sia centripeto sia centrifugo del pensiero, non lineare, non unico; un voler sapere oltre, di più di sé, di più del proprio corpo; corpo inteso sia in senso fisico («membra») sia “metafisico”, ossia limite della comune percezione da valicare.
Del resto, e viene detto subito, del corpo normalmente inteso il poeta non ha “percezione” nel suo naturale e quotidiano divenire; di esso ha coscienza della struttura che lo sostiene, le “ossa”, perché l’ossatura è la parola stessa che sostiene il discorso poetico. Non si tratta di una ricerca, come dicevo, lineare, dal taglio netto: è un percorso condotto per «pochi rivoli», dove colpisce proprio questa parola, “rivoli”, che evoca l’elemento liquido, vitale, primordiale.

Ed ecco allora che si fa più certa la poetica di Brusa: questo suo sapersi «definire per sottrazione», e proprio nella poesia dove per la prima volta ricompare il sale. Nuovamente un’antitesi come definizione:
«mi definisco per sottrazione/ per ciò che aggiungo/ all’ombra che non ho». “Corpo senz’ombra”? L’incorporeità della poesia? Dove vuole condurre questo cortocircuito paradossale della poetica brusiana? Conduce al corpo, perché è ciò che Brusa espone in ogni componimento di questo suo nuovo libro, spezzato e vertiginoso (come suggerisce il titolo stesso della raccolta). È vero!, è un corpo che inizialmente rimane negato, giacché per scoprirlo bisognerebbe uscire dal proprio labirinto; si forza perciò la metafora esistenziale lasciando, o accostando, ai “rivoli” ora i “vicoli” per proseguire la ricerca di sé. Avvertibile ancora una volta in questa disamina la presenza di fondo di Caproni, sia nella versificazione scarnita, sia nell’interrogazione degli io che vivono la contemporaneità. E il plurale è d’obbligo perché appunto sulla scorta di Caproni più io condividono i versi, e in essi si disperdono. Non induca, però, a pensare a cedimenti questo ripetersi di certe immagini già presenti nella prima raccolta, perché è proprio da essa che si riparte, quasi tutta La raccolta del sale fosse rematicamente data per accolta come premessa ai nuovi versi.
Si forzano, perciò, le strutture grammaticali, sintattiche, della lingua poetica, già di per sé stessa meno sorvegliata di quella della prosa, e della lingua parlata in genere; non rari sono i vocaboli apparentemente irrelati, quasi avulsi dal contesto in cui sono comunque inseriti; ma è proprio questa la frattura del corpo: il varco descritto in Di grida è questo senso, quando Brusa afferma «questo verso nuovo/ ha del l’ingresso le spalle/ e un varco di anni e/ di battenti chiusi». Ci si fa strada là dove i battenti sono rimasti chiusi per anni (nella «terra di novembre», vistoso elemento biografico) con un “verso nuovo” che è portatore di una grammatica nuova, necessaria per nominare ogni cosa: il corpo e la sua reificazione.
Estraniato, posto all’altro capo, viene “tinteggiato” «il presente» con una lingua «che frana»; e qui pare di avvertire in sottofondo la voce di Gabriele Gabbia, per quanto non sappia io se realmente sia stato letto e introiettato da Brusa; ma se anche non fosse stato letto ciò non cambia il fatto che sia una modalità tipica del linguaggio poetico e della poesia quella di intercettare modi e pensieri, e più ancora il moto di un pensiero comune che poi viene variamente declinato, articolato. E anche non fosse la voce di Gabbia, come è molto probabile, è sicuramente una riflessione che accomuna la “parola franata” di questi due “nuovi” poeti ai «detriti di voci sconnesse fra polvere e luce» di Giuliano Mesa. Sembra, perciò, quasi una lotta contro una forma atipica di afasia, perché comunque il poeta “grida”, seppur con un filo di voce, la sua “dolce lingua franata” che racconta «lo spazio tolto» al «petto», che designa tanto il corpo quanto il cuore, con un doppio procedimento metonimico.
Ed ecco, allora, che pure l’erosione dell’uso normativo della punteggiatura si fa lingua; e se già stupirono i due punti a inizio verso nel precedente La raccolta del sale, qui si osa introdurre il verso dalla virgola, che non è più pausa sintattica ma elemento rematico che richiama quanto precede il verso («se qui resta la mano,/ infissa, piano/, appena sotto lo/ sterno.»; Mareggiate…).
E così ci si rende conto, progredendo nella lettura, che tutta la raccolta pare reggersi su precise parole/ immagini ricorsive: strade/vicoli, deserto, sale, ombra/assenza, corpo (e sue parti), vento/respiro, tempo/anni, terra/terre.
Anche la ripresa del dialogo in poesia con la figura paterna andrà letta nella direzione della ricerca del corpo, poiché attraverso il recupero del corpo che ha partecipato alla creazione di un altro corpo, entrambi ridotti all’essere «istanti/ cui non compete verità»
(Di questa nascita…), i corpi stessi si riconoscono e si appartengono, come viene detto nella breve e splendida Di questo corpo ho fatto testo. Ed è sempre in questa sezione, intitolata Nel nome del figlio, che si chiarisce il significato di quella che poco sopra ho definito afasia atipica di Alessandro Brusa: è l’afasia che ha colpito la poesia del padre a lanciare un’ombra che atterrisce il figlio che cerca di porre un rimedio indicando non una via d’uscita ma il punto di origine della poesia paterna, quel verso di obbedienza perduto. Ma la ricerca del corpo richiede tempo, ed è il
“tempo” la dimensione – quando non è addirittura invenzione – umana da interrogare ora, perché non è il tempo nostro che ci appartiene: è il tempo a venire, come si legge nella chiusa di Li ho amati tutti, poesia dove si ricongiungono le membra disperse nel passato nella sicurezza di una raggiunta «trasparenza di prospettiva vera» nel segno dell’amore e della relazione con l’amato capace di dare «lo sfondo/ degli anni/: non di tutti, solo/ dei prossimi».

Fabio Michieli

In punta di corpo

1.
Il corpo è uno spazio geografico, un territorio da mappare ed esplorare. Abitarlo significa conoscerne i confini, costruire strutture in grado di garantire un riparo. Chi abita il corpo accetta di viverlo anche in punta, vale a dire nei suoi aspetti più aguzzi e pungenti. Forse la poesia di Alessandro Brusa nasce proprio da un graffio, una puntura della realtà che scalfisce l’epidermide e provoca una ferita: “…non sono nata / per le cose del mondo / ma per giudicare l’ingiusto/ ed il peso con cui ti stira le membra”, ci ricorda la voce monologante che apre la raccolta, “perché sono l’emozione grezza / che non capirai mai / ed è per me che avrai / salva la vita”. È la voce della poesia stessa, più Nemesi che Musa, che ci accoglie all’ingresso di questo libro e stabilisce immediatamente un legame diretto col lettore, lo invita a seguirlo all’interno della pagina, lo scorta attraverso “un varco di anni” invitandolo ad attraversare le cinque aree tematiche di cui il lavoro si compone.

2.
Per l’io lirico che si autorappresenta nei testi di Brusa, il corpo è un codice di comunicazione tramite cui stabilire un contatto diretto con il lettore e allo stesso tempo perlustrare la propria morfologia identitaria. Se nella prima sezione, Il vento che insegue veloce, l’io-corpo si muove all’interno di uno spettro emotivo che oscilla fra la dichiarazione di vulnerabilità (“mi ruba il cuore chi / di vento è fatto”) e una violenza trattenuta (“il filo di rabbia che / non mi concedo”), nella seconda parte, Il tempo che abitiamo in punta, il discorso si fa plurale (“noi, che ci incontriamo / di amore inespresso”), tende all’immedesimazione con l’altro (“il battito che allineo al / tuo modo di vivere”), si definisce all’interno di una condizione agonica (“generazione / che s’è morta il fiato”). Incorniciata tra le prime due sezioni e le ultime due, trova posto la sequenza Il taglio del legno, breve suite di nove testi ispirati ad altrettanti brani di musica classica il cui ascolto (in definitiva un’esperienza sensoriale e dunque fisica) sembra quasi concedere al soggetto un attimo di quiete e raccoglimento (“se penso a lei / e se per lei prego”).

3.
Alessandro Brusa è figlio di un poeta. Il dato biografico, essenziale all’intelligenza della quarta sezione, Nel nome del figlio, innesca un processo di risemantizzazione della dialettica io-tu che pervade i testi del libro: il soggetto, impegnato nella mappatura emotiva del corpo e delle relazioni, sonda adesso le proprie origini (“Di questa nascita / riempio il tempo / che io solo conosco”). Se è il padre che ha “smarrito la parola”, sarà compito del figlio ribaltare i ruoli e prendersene cura (“l’uomo che / ti porta sulla mano”) proseguendone idealmente l’attività di scrittura (“Di questo corpo ho fatto testo / se del tuo corpo tengo il segno”).

4.
Gli amanti, intesi come corpi-creature in cui abbandonarsi “giorno dopo giorno / in profondità nuova” non proseguono in linea retta a segnalare una scandita progressione di esperienze amorose bensì girano in cerchio, abbracciano il soggetto lirico includendolo in un’identità plurale vorticante che prelude alla fusione, ancora una volta esplicitata dalla metafora corporale: “perché mi sei braccia e lingua”. Il tu della tradizione lirica è l’alterità che va protetta (“tienimi la mano, dici / tienimi la mano // ed io la prendo / dal fondo di qualcosa / che non sai”), in quanto capace di eludere la superficie narcisistica e guardare attraverso, in profondità (“hai fatto / vetro dei miei specchi”): l’esplicita dichiarazione d’amore che segue (“ti amo perché sei altro”) sancirà il passaggio dall’iniziale erotismo al progetto esistenziale comune, dal “materasso / che resta al mondo / lo spazio pieno / delle nostre vite”, ad “un selciato di / nuovo cammino” dove sarà il soggetto poetante, stavolta, ad essere contaminato dall’altro (“Semini vita / nei solchi del / mio inverno”). A ben guardare, la narrazione lirica di Brusa, dopo le ricognizioni corporali e musicali che hanno visto il recupero della figura paterna attraverso la scrittura, sembra concludersi con l’happy end per antonomasia, vale a dire il connubio, sancito, non a caso dalla “parola / data in dote”. A noi lettori e spettatori della vicenda, non resta che inviare ai due soggetti (poetante e poetato) le nostre felicitazioni.

Marco Simonelli
Firenze, Maggio 2016

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