photo Rosario Leotta
Difficile presentare un poeta con questo cognome, un cognome che “pesa” nella nostra recente letteratura: per farlo ci vuole quello che l’autore Alessandro Brusa utilizza per il proprio lavoro, umiltà e rispetto.
Accade lo stesso per la raccolta del sale, quella che viene evocata nel titolo libro, mestiere duro, di fatica ed estrema attenzione. In fondo anche la poesia si basa su questo e il lavoro di Brusa ragiona principalmente su questa dinamica, sancire col proprio operato la possibilità di creare un lavoro solido, dimostrare, affrancarsi.
Esite in questo libro una sorta di bisogno e la figura del padre emerge sotto vari aspetti: il padre è l’esempio, quello forte del poeta che cerca sempre la parola migliore, ragiona sugli equilibri, e quello più fragile del quotidiano, l’identità che dovrebbe dare sicurezza e che invece catapulta verso nuove responsabilità che sono le stesse di chi affronta con serietà un lavoro (come la raccolta del sale, come il fare poesia).
Ma padre, o meglio il non poterlo essere, è anche tematica diretta, nelle domande più sfacciate che riecheggiano con durezza: << Questa è la mia pancia / penso / la mia gravidanza // e con la mano ne seguo la rotondità / cresciuta non per un piccolo miracolo / ma per la mia ragione d’essere padre / ignorando questo mondo / e dissimulando sorpresa / ai vostri sguardi increduli / mentre i polpastrelli indugiano nel piacere / di accarezzarne la pelle / tesa a ricoprire una paternità improvvisa // aspetto un bambino / e lo accolgo con un pensiero nuovo / mentre cancello il cielo, / mentre ne raccolgo la vita ed i suoi giorni. >> perché il figlio davvero è simile al padre, ma anche diverso e tutta la raccolta insiste su questo passo, sulle differenze caratteriali, sulle decisioni diverse, sulle vite diverse: alla fine nel libro di Alessandro Brusa il confronto col padre non è quello intellettuale col poeta riconosciuto, ma quello decisamente più pragmatico col padre-uomo reale e imperfetto, questa è la grande sfida, quella quotidiana che in qualche modo ci tocca tutti quanti <<[…] è un lavoro chirurgico il tuo / non ci sono scogliere a picco / sull’oceano / e non c’è vento a scompigliarti / i capelli / così ti ho visto scartare la vita / sfiorarne il respiro migliore / ed allontanarlo / solo perché non adatto al tuo verso // * * * // la mia vita invece non suona così / i miei pensieri steccano spesso / e le stanze del mio tempo / le ho spalancate urlando / parole sgradevoli / le prime trovate sotto mano / (non sono un chirurgo / dio solo sa quanto ci abbia provato) >>.
In mezzo a tutto questo sta una scrittura rigorosa che però non si fa mancare scatti d’ira e lampi di forza a sancire una personalità poetica sicuramente sfaccettata che nemmeno intende cercare (anche per quanto sopra ribadito) la perfezione ma preferisce quando necessario sporcarsi, divenire cosa quotidiana, parlare alle persone, raccontare finanche attraversando la sfera privata, quella degli affetti (si veda la richiesta di accanirsi con le dita sul costato fino a raggiungere le viscere così profondamente cercate nel corso di tutto il libro).
Si trova in questo libro la possibilità di un’uscita, l’emersione di qualcosa che già da molti anni era pronto per manifestarsi, ma che solo con una piena maturità è stato possibile mettere in fila e fare diventare carta e testi, e pagine e cose da dire.
Perché a un certo punto le cose bisogna dirle perché non ti esplodano in mano << Sputi rossastri e fiotti di saliva / tra gli scarti di questa esistenza / stretta alla strada / e sulla strada stretta ai rumori / agli umori e agli odori nauseabondi / di giorni di cui non abbiamo più memoria // : terra di gente che tocca la terra / che mangia una terra che nasconde i gatti / che sfama i topi / come anime ritrovate / per non scomodare la morte >>.
Sei qui, cerchi qualcosa lo vedo nei tuoi occhi che corrono e arrancano su disordine e rime mancate cerchi un senso, la strada diritta, facendo scempio di questo tempo che già vorresti spazzare via perdi così la vita che ti regalo il fiato che sottile ti allungo sotto il naso fatto sentiero, disperso da sangue troppo dolce e da un respiro troppo corto.Ho tramutato i miei passi in orme di gigante l'ho fatto con l'ignoranza spicciola del contadino che all'estate chiede pioggia a suo piacimento; mi sono fatto sottile negli anni con lentezza e calando ad una maglia più fine mi sono stretto al collo in un momento solo, dopo il tramonto; ma ora sono qui ed in questo mondo di strade non so con che voce dirti come mi chiamo, se la fragilità è un legno che non conosco.La raccolta del sale è una stagione tollerante è lavoro necessario per chi negli anni ne ha perse distese incise d'orgoglio e di confini rigidi appena.Un otre vorrei per raccogliere le mie lacrime senza lasciarne indietro alcuna : che il sale mi è figlio e lecca la mia pelle * * * ho imparato il disordine sfuggendo alle mani la precisione necessaria per infilare i passi come perle in un rosario raccolto in strada.
La traccia sentimentale lasciata lungo tutta la raccolta di Alessandro Brusa riguarda, a mio avviso, non tanto le vicende di due individui che inseguono le loro ombre esistenziali, quanto la volontà che il soggetto poetico ha di incarnarsi nel proprio complemento attraverso un’aspettativa verace – ma anche criptica – del sentire, e quindi dell’intendersi meno fruibile al pubblico medio della poesia. Brusa, però, da buon emiliano che ama fare sorprese, acuisce la caratteristica di cui sopra, esasperando la frequenza retorica delle sue figure (metaforiche, ma più ancora sinestesiche) ed elimina, quasi per provocare il lettore, l’intero apparato della punteggiatura, se non fosse per qualche “due punti”, posti fuori luogo canonico, in capo al verso. Viene allora a galla una sintassi che potrebbe benissimo assomigliare a una cavalla selvaggia, che trotti solitaria lungo sentieri mai prima percorsi.
Queste caratteristiche, come per paradosso, tengono sveglio e assai motivato il fruitore.
Ma entriamo meglio nel reticolo molecolare di questo tipo di scrittura.
Molte sono le sezioni, tutte tratte da echi di maestri personali; la prima è intitolata “Nel silenzio del suo sangue”, (da Percy Bisshe Shelly) mentre le altre, nell’ordine s’intitolano: “La stella dei perduti” (Dylan Thomas); “Solitario ti appartieni dal mondo” (Tu Fu); “Non sei dove sai” (Giorgio Caproni) e “Un alfabeto diligente” (da Maurizio Brusa, padre di Alessandro).
Curiosamente titoli, che, a parte l’ultimo, alludono alla solitudine e alla perdita.
È all’interno della prima sezione che il poeta assume un tono quasi oracolare, parlando come chi abbia voglia di sancire una definizione categorica, sottoposta a precetto inderogabile: dice il poeta a pagina … «Ho rinunciato alla parola / fatta di spazi leggeri //… //ho smesso di sputare sassi / e mi sono annoiato di me stesso /…». Qui, la prima persona sembra assumere un vasto peso specifico, anche pensando a come (il soggetto, appunto) implichi, nei suoi quadri, parti della propria corporeità (…sangue … lacrime …ed altro ancora) che vengono riflesse sull’immagine quasi virtuale dell’altro.
Energetica e dinamica ci appare poi quella specie di rabbia, il cui livello non sembra offrire nessuna componente di rassegnazione.
Il titolo, “La raccolta del sale”, aiuta forse a comprendere la tematica dell’opera tutta. Il sale che si raccoglie serve forse per essere sparso sul campo di battaglia dei due complici-avversari? Può essere inteso come dichiarazione di annientamento del territorio conquistato?
«Abbassi lo sguardo / sbatti le ciglia, poi lo rialzi / ed accenni una smorfia // ed anch’io allora faccio lo stesso / anche io abbasso gli occhi / sbatto le ciglia / ed accenno la tua stessa smorfia //…». Un frammento questo (pagina …) che intende l’azione mimetica dell’Uno nell’Altro: vedere, imitare l’esistenza come per una sorta di pigrizia morale che impedisce di ritornare al modello originale dell’antica vocazione. Tutto il libro potrebbe quindi apparire come la metafora totale dell’umanità. Un consorzio di membri intesi, più che altro, a rubare al fratello perfino l’anima e il nocciolo della natura umana. E tutto per una sola ragione: quella di non dover nascere di nuovo all’Unicità.